Importantissimi sono gli adattamenti a livello del piede, che per sopportare l’impatto ed i traumi sollecitati dalla deambulazione e dalla corsa, deve presentare una struttura robusta e allo stesso tempo elastica.

Ogni qualvolta il piede tocca il terreno, esercita delle forze e contemporaneamente ne subisce altre uguali e contrarie, in relazione all’accumulo di energia elastica all’impatto e al suo riutilizzo nella fase di spinta, per il principio di conservazione dell’energia. Nella fase d’impatto la forza reattiva agisce in direzione opposta al piede con effetto frenante.

I tendini del piede quindi si rilassano completamente sotto l’azione gravitazionale, non opponendosi ma sfruttandola nell’adattare la pianta alla superficie d’appoggio. Nella fase di stacco invece la forza reattiva determina lo spostamento del corpo in avanti e il piede si oppone alla forza della gravità, irrigidendosi (fondamentale a tale scopo è la migrazione sottoastragalica del calcagno).

Se però nella deambulazione le problematiche energetiche sono risolte trasformando continuamente l’energia potenziale in cinetica (con l’aumentare di una proporzionalmente diminuisce l’altra), nella corsa invece i processi di accumulo e trasformazione dell’energia sono più complessi, sfruttando infatti in tal caso l’energia elastica del piede. Analogamente a una palla che rimbalza, in cui lo spostamento in avanti è dovuto all’energia elastica accumulata in seguito alla sua deformazione nell’attimo in cui urta contro il suolo, nell’uomo l’energia immagazzinata, proporzionale all’energia cinetica sviluppatasi nella caduta, viene restituita nella componente elastica (i muscoli), e negli elementi elastici in serie (i tendini), durante la successiva spinta in avanti o in alto.

In ogni passo di corsa si individuano tre fasi: una fase di spinta, una di volo, in cui il corpo è sospeso in aria, e una di arrivo al suolo. Il lavoro che determina gli spostamenti del centro di gravità del corpo viene compiuto essenzialmente nella fase di spinta. Da un lato infatti si accelera il corpo, si aumenta dunque la sua energia cinetica, dall’altro lo si innalza, aumentando la sua energia potenziale.

Nella fase di volo il baricentro del corpo raggiunge il livello massimo e poi tende a scendere mentre la velocità rallenta, se pur di poco, a causa della resistenza opposta dall’aria. Nella fase d’impatto il centro di gravità si abbassa ulteriormente, l’energia potenziale tocca il punto più basso, mentre il contatto del piede con il terreno determina un rallentamento del corpo così che anche l’energia cinetica arriva al valore minimo.

Per mantenere la velocità costante l’accelerazione che si verifica nella successiva spinta dovrà necessariamente compensare la “frenata” d’arrivo a terra e quella, di entità molto minore, dovuta alla resistenza dell’aria. Per sviluppare quindi la forza necessaria alla propulsione del corpo in avanti si sfrutta l’energia elastica accumulata dai complessi mio-tendinei del piede e della gamba. Fondamentali sono il tendine di Achille e la fascia plantare, paragonabili a una molla che prima si contrae sotto l’azione di forze e poi rilascia completamente l’energia immagazzinata.

Il tendine di Achille è la molla principale che accumula energia elastica e il suo corretto funzionamento è tanto fondamentale per la corsa che Bramble e Lieberman ritengono che da un punto di vista evolutivo il suo sviluppo sia stato stimolato proprio da una prolungata attività di corsa, mentre il suo coinvolgimento nella deambulazione resterebbe relativamente scarso.

La fascia plantare invece ha un funzione fondamentale nel contribuire alla stabilità dell’appoggio e nella trasmissione della forza dai muscoli del polpaccio verso l’avampiede e la sua elasticità permette di risparmiare, per mezzo della sua distensione, una notevole quantità di energie nella corsa o nel salto.

La loro importanza e il loro coinvolgimento nell’attività fisica è testimoniato anche dalla frequenza con cui si sviluppano negli atleti patologie relative a tali sistemi muscolo-tendinei-ligamentosi, solitamente causate da carichi di lavoro esagerati o incrementi troppo repentini, o da un errato appoggio del piede durante l’attività sportiva Gli adattamenti che è possibile rilevare dalle evidenze fossili di H. ergaster e H. sapiens includono anche lunghi e “molleggiati” tendini, tra cui appunto il tendine di Achille, mentre i reperti relativi ad Australopithecus suggeriscono che le Australopitecine mancassero di un tendine di Achille ben sviluppato, come così anche le attuali scimmie. L’arco plantare pare essersi sviluppato solo parzialmente nelle Australopitecine, essendo stato rilevato, dallo studio dei fossili di Sterkfontein e Hadar, uno scafoide tarsale ben sviluppato e atto a sostenere più peso di quanto non si registri nell’uomo, ma assai vicino alle proporzioni di uno scimpanzé.

La struttura del piede nell’anatomia moderna si è notevolmente differenziata rispetto ai nostri parenti più vicini, le Antropomorfe, dovendo subire notevoli adattamenti legati soprattutto alla stazione eretta costante, alla deambulazione e allo sviluppo di movimenti sempre più complessi.

La differenza più appariscente è innanzitutto la divergenza dell’alluce, che passa da una funzione prensile a una funzione di propulsione. Nell’uomo è strutturato parallelamente alle altre dita, perdendo gran parte della mobilità che possedeva.

Ha prevalentemente il compito di liberare l’energia accumulata, sfruttando la reazione della superficie d’appoggio nel far progredire il corpo, e d’altro canto contribuisce a irrigidire l’intera struttura del piede. La flessione dorsale delle dita infatti, oltre ad aumentare l’ancoraggio al suolo nella spinta in avanti, attiva anche un meccanismo ad argano, che rende il piede una vera e propria barra di leva. Nella corsa la funzione delle dita e dell’alluce sono ancor più evidenti, mancando spesso l’appoggio del tallone, e venendo così scaricato improvvisamente tutto il peso corporeo sull’avampiede.

Essendo maggiore l’energia cinetica nella caduta del corpo, deve essere maggiore anche la reazione, e quindi l’energia elastica nella propulsione. L’alluce, che maggiormente si fa carico del compito di spingere avanti il corpo, presenta quindi una struttura ossea, relativamente alle Antropomorfe ed agli altri Primati, molto più robusta rispetto alle altre dita. Riguardo alle Australopitecine i dati sul piede sono ancora contrastanti e non abbondanti. Nel 1979, Mary Leakey trovò dozzine di impronte (fig. 3) in una località dell’Africa orientale chiamata Laetoli, in Tanzania.

Orme che non si differenziano molto da quelle lasciate dai piedi di essere umani odierni, ritrovate in strati costituiti da ceneri vulcaniche solidificate 3,56 MA. Le impressioni appartengono a più individui diversi, suggerendo a un’approfondita analisi un tallone pronunciato, un arco longitudinale mediale sviluppato, con il peso che poggia lateralmente, e un alluce lievemente divergente, di dimensioni notevolmente maggiori rispetto alle altre dita. Queste interpretazioni non sono in realtà uniformemente accettate, e ancor oggi la discussione sulle impronte di Laetoli e sulla loro appartenenza non è conclusa. Basti pensare che c’è chi ritiene che siano impronte lasciate da esseri umani di anatomia moderna e chi sostiene invece che siano state lasciate da forme ancestrali contemporanee a Lucy.

Ron Clarke nel 1998 scoprì uno scheletro praticamente completo di Australopiteco in località Sterkfontein, in Sud Africa. L’esemplare è stato datato a circa 3,7 milioni di anni fa, come le impronte di Laetoli, ma Ron clarke ricostruì i piedi del suo Australopiteco in termini decisamente più scimmieschi, presentando tratti ancora arcaici. L’alluce è senza dubbio divergente, allungato e proteso lateralmente e così pure le altre dita sono decisamente allungate, più di quanto riscontreremmo nell’anatomia moderna, ma comunque meno divergente di quanto non lo sia nelle Scimmie Antropomorfe. L’interpretazione che fu data da Ron clarke e dal paleoantropologo Phillip V. Tobias, leggeva la divergenza e l’opponibilità dell’alluce come testimonianze di uno stile di vita ancora parzialmente arboreo, associato però alla completa capacità di progredire bipede ma, nonostante ciò, numerose restarono le voci di dissenso, che vedevano l’Australopithecus africanus completamente adattato alla locomozione su due piedi e alla vita terricola, interpretando e facendo fede sulle evidenze a livello della spina dorsale, dell’anca e del ginocchio. Ron Clarke continuò però nel sostenere che se pur la divergenza dell’alluce in Australopithecus afarensis era un carattere arcaico da legare a uno stile di vita ancora parzialmente forestale, questo non escludeva l’adozione di una locomozione bipede più o meno costante. Fondamentale a riguardo risultò un esperimento portato avanti nel Boswell Wilkie Circus con due scimpanzé, un maschio e una femmina, lasciati liberi di camminare su sabbia bagnata. I risultati si rivelarono in accordo con le sue teorie.

La femmina camminava nervosamente, con insicurezza, irrigidendo la pianta del piede, contraendo quindi le dita ed estendendo l’alluce; invece il maschio era più sicuro e tendeva a camminare con l’alluce in una posizione generalmente vicina alle altre dita, probabilmente per una locomozione più comoda. La divergenza dell’alluce quindi di per sé non rappresenta un ostacolo insormontabile nell’assumere la stazione eretta e una deambulazione bipede, anzi l’esperimento dimostra come in caso di necessità lo scimpanzé maschio riesca addirittura ad adattarsi al terreno convergendo l’alluce verso le altre dita per spostarsi più facilmente. Le impronte lasciate dallo scimpanzé assomigliavano notevolmente alle impronte di Laetoli, e dimostrano che una posizione dell’alluce perlopiù parallela alle altre dita durante la locomozione bipede non implica necessariamente lo sviluppo di una morfologia del piede vicina a quella umana, né la perdita della capacità, se pur parziale, di opporlo. in quest’ottica le impronte di Laetoli sarebbero potute anche essere lasciate da un piede simile a quello dell’Australopithecus afarensis StW573 ritrovato da Ron Clarke.

Inoltre Deloison suggerì che un’altra caratteristica fondamentale delle impronte di Laetoli è l’assenza dell’impressione di ogni singolo dito, a parte ovviamente l’alluce, come se fossero contratte, proprio come le contrae Pongo quando procede bipede. Nonostante però tutte le spiegazioni formulate e le interpretazioni proposte, il mistero di Laetoli sembra essere destinato a fomentare ancora a lungo disaccordo all’interno della comunità scientifica e non solo. L’ipotesi avanzata da Bramble e Lieberman offre comunque un’ulteriore chiave di lettura per le conoscenze finora accumulate sulle Australopitecine e su Homo.

I caratteri scheletrici relativi ad Australopithecus rivelano infatti nell’insieme una morfologia derivata rispetto alle Antropomorfe, in via di “umanizzazione”, e proprio la corsa potrebbe forse rappresentare lo stimolo che avrebbe sempre più differenziato lo scheletro verso l’anatomia moderna. In quest’ottica anche l’esperimento di Ron Clarke e le sue intuizioni sulla possibile locomozione bipede di StW573, potrebbero suggerire come per il raggiungimento della stazione eretta e della deambulazione non sia stato necessario sviluppare tutti quei caratteri “moderni” che oggi ci distinguono, ma si sia trattato di un adattamento, se pur fondamentale, che ha apportato solo parziali modifiche alla scheletro dello Australopitecine. Quindi proprio la necessità di un’ulteriore specializzazione, la necessità di rendersi competitivi nella corsa per la sopravvivenza e nell’approvvigionamento del cibo avrebbe spinto l’uomo a distinguersi e differenziarsi dai suoi antenati.

 

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